Nel momento in cui si temeva un nuovo scossone, il Conclave ha scelto la compostezza. Robert Francis Prevost, primo Papa nato negli Stati Uniti — oggi Leone XIV — incarna una figura capace di tenere insieme mondi diversi, l’America del Nord e quella Latina, la sobrietà agostiniana e la perizia canonistica, il carisma pastorale e la freddezza istituzionale.
Più di ogni altra cosa, ha attraversato la complessità ecclesiale senza trasformare le difficoltà in scandalo. In una Chiesa americana segnata da collusioni e abusi, Leone XIV non si distingue per l’assenza di problemi — nessuno ne è immune — ma per la sobrietà con cui li ha affrontati. Le sue decisioni, le sue nomine, persino i suoi silenzi parlano di una personalità solida, refrattaria alle pressioni, attenta a proteggere la tenuta interna dell’istituzione.
Nato a Chicago in una famiglia di origini francesi, Prevost ha trascorso quasi quindici anni in missione in Perù, imparando lo spagnolo e vivendo accanto agli emarginati. Un’esperienza che ha lasciato una traccia profonda, concreta, fondata sulla prossimità più che sull’ideologia.
È stato coinvolto in due vicende delicate.
Nel primo caso, tre denunce per abusi in Perù portarono accuse di sottovalutazione. Si trattava tuttavia di episodi risalenti nel tempo, spesso già prescritti o giudicati infondati, con i sacerdoti comunque sospesi in via cautelativa.
Nel secondo, una volta tornato negli Stati Uniti, autorizzò la residenza di un sacerdote rimosso per accuse di abusi in un convento vicino a una scuola elementare, senza informarne la direzione. Una scelta discutibile nella comunicazione, ma conforme alle procedure interne e priva di nuove violazioni.
Più che per complicità o copertura, il suo stile riflette una strategia di contenimento silenzioso, evitare il clamore mediatico, preferire i trasferimenti riservati agli interventi pubblici, proteggere la stabilità della Chiesa. Uno stile sobrio, quasi militare, che richiama certe operazioni riservate d’un tempo più che le pratiche comunicative contemporanee.
Dopo essere tornato alla guida dell’Ordine di Sant’Agostino, Prevost fu chiamato a Roma da Papa Francesco, che lo nominò prefetto del Dicastero per i Vescovi e poi cardinale. Eppure, pur all’interno di una traiettoria “bergogliana”, Leone XIV non è propriamente un bergogliano. Ne ha accolto l’attenzione per i poveri, ma senza condividerne il protagonismo. Dove Francesco era magnetico, lui è impenetrabile. Dove il predecessore parlava per immagini, Leone XIV adotta il linguaggio asciutto delle istituzioni.
Il suo abbraccio iniziale al lascito di Francesco è stato un gesto di sapienza ecclesiastica, rassicurare i progressisti, senza illuderli. Ma fin dalle prime dichiarazioni è emerso un altro lessico, disciplina, discernimento, dottrina. Leone XIV non rovescia Francesco, ma lo relativizza nel tempo della Chiesa. Lo ridimensiona con garbo. È il gesto di chi non ha bisogno di alzare la voce per essere ascoltato.
In un’epoca che esalta le personalità eclatanti, Leone XIV colpisce per ciò che non è. Non è divisivo, non è ideologico, non è clericale. Non è un teologo da frontiera, né un burocrate senz’anima. È una sintesi tra rigore e compassione — ed è questo a renderlo credibile.
Chi lo conosce sa che non è uomo delle svolte improvvise. È un Papa di pazienza e di precisione, più vicino a Paolo VI che a Francesco. Eppure, non è un restauratore. Ha vissuto troppo a lungo accanto ai poveri del Sud del mondo per ignorare le domande di giustizia e riforma. Ma le affronta con metodo, non con clamore.
Il pontificato di Leone XIV non sarà quello delle rotture, ma potrebbe segnare una discontinuità reale, meno profetico, più istituzionale. Meno attento all’egemonia mediatica, più concentrato sulla tenuta interna della Chiesa. Forse, è proprio questa la sua rivoluzione silenziosa, ma concreta.
Nel 2023 ha gestito con fermezza le tensioni del Cammino sinodale tedesco, ha nominato vescovi fedeli e preparati, ha rafforzato la collegialità evitando derive populiste. In più occasioni ha espresso con misura il proprio dissenso rispetto all’uso strumentale della religione a fini politici, marcando una distanza prudente da figure come l’allora senatore J.D. Vance.
Non è un attivista del clima, ma un critico sobrio dello sfruttamento ambientale. Quello che ha desertificato intere aree degli Stati Uniti per alimentare la crescita europea. E quello che oggi devasta l’Amazzonia. Il suo appello alla responsabilità ecologica nasce da una coscienza pastorale, non da adesioni ideologiche. In questo senso, si colloca più nella scia del magistero sociale di Leone XIII che nel linguaggio profetico di Francesco.
Non a caso, in un colloquio pubblico, Leone XIV ha dichiarato che la scelta del suo nome papale è dovuta “anche, principalmente” a Leone XIII. Ma chi lo ascoltava percepiva qualcosa di più. Uno sguardo appena accennato, un tono sfumato, segni che lasciavano intravedere una sottile astuzia curiale. In quella formula non c’è menzogna, ma un’intelligenza capace di muoversi tra le sfumature.
Il nome Leone racchiude anche il legame affettivo e spirituale con l’Ordine Agostiniano, che ha ricevuto grande impulso dalla sua azione. Il 4 novembre 2024 ha presieduto la messa a San Carlo Borromeo a Roma, occasione che ha riportato sotto i riflettori la questione del suo rapporto con la lingua italiana.
Curioso, allora, che ancora qualcuno scriva che “conosca poco l’italiano”. Non per mancanza di studio, ma forse per quella sottile ironia che accompagna molte delle sue risposte.
Alla fine, non sappiamo se sia stato scelto per una Grazia che ci sfugge, o perché conosce e tollera ogni trasformismo pur di tenerlo sotto controllo. Non tanto per complicità quanto per una logica di contenimento. Dopo Bergoglio, forse non ci fidiamo più. Ma stavolta siamo davanti a un Papa cattolico; comunque i segnali sono forti, la fiducia potrebbe davvero essere ben riposta.
Direttore responsabile, Domenico Galati
Postilla per i lettori
Qualcuno potrebbe domandarsi se un editoriale sul nuovo Papa sia fuori tema per una rivista culturale. In realtà, la Chiesa custodisce una parte immensa del patrimonio culturale mondiale — secondo molte stime, tra il 70% e il 90%. Per secoli è stata crocevia di arte, pensiero e identità. Anche queste riflessioni si collocano pienamente in quel solco.