di Redazione
Ogni tanto, tra le nebbie di un passato affascinante e il bisogno contemporaneo di meraviglia, riemerge il mito della “città etrusca sommersa” nel lago di Bolsena. Si tratta di una narrazione suggestiva, alimentata da racconti orali, rilievi non verificati e un certo spirito romantico, che insiste nel voler trovare al centro del lago un insediamento perduto; templi, blocchi di pietra, allineamenti murari che parlerebbero di un’antica Volsinii sommersa dalle acque. Ma che cos’è davvero questo mito? Quali sono le basi storiche, archeologiche e documentali su cui si regge (o meglio, non si regge) questa narrazione? E cosa ci dice, in filigrana, sul modo in cui oggi guardiamo agli Etruschi e alla Tuscia?
Fanum Voltumnae questione chiusa
Il punto centrale della questione è il cosiddetto fanum Voltumnae, il santuario federale in cui si riunivano annualmente le dodici città della lega etrusca. Per decenni la localizzazione del fanum è stata oggetto di speculazioni, ma dagli anni Novanta in poi il lavoro di Simonetta Stopponi, docente all’Università di Perugia, ha chiarito i termini della questione. Gli scavi condotti nei pressi di Campo della Fiera, a Orvieto, hanno portato alla luce strutture monumentali, un sistema viario, altari, materiali votivi e resti di frequentazione che si estendono per secoli.
Secondo Stopponi, “non ci sono più dubbi ragionevoli sul fatto che Orvieto sia l’antica Velzna, e che il fanum Voltumnae sorgesse ai piedi della rupe”. La tesi è stata accolta con favore dalla maggioranza degli etruscologi, tra cui Mario Torelli, Giovannangelo Camporeale e Antonio Minto (tra i primi a intuire il collegamento). La localizzazione corrisponde anche alle indicazioni fornite da Tito Livio, che descrive la presa di Volsinii da parte dei Romani nel 264 a.C. e il successivo trasferimento della popolazione nella pianura, dove sorgerà la Bolsena romana.
Bolsena città romana, non etrusca
Il lago di Bolsena ha certamente una storia stratificata. L’Isola Bisentina, Capodimonte, le rive occidentali e orientali custodiscono necropoli, porti romani, e tracce di frequentazioni antiche. Ma nulla, al momento, fa pensare a un insediamento urbano etrusco di rilievo. I materiali rinvenuti sono prevalentemente di epoca imperiale o tardo-repubblicana, e anche le “testimonianze orali” che parlano di blocchi di pietra, ruderi sommersi, “templi affondati” non sono mai state accompagnate da una documentazione tecnico-scientifica verificabile.
Le immagini batimetriche, talvolta richiamate da appassionati, non mostrano altro che strutture naturali, anomalie del fondale o vecchie costruzioni moderne (pontili, attracchi, resti di darsene private). In assenza di rilievi certificati da enti scientifici o soprintendenze, ci troviamo davanti a ipotesi suggestive, ma non verificabili, e quindi non pubblicabili secondo gli standard di una rivista culturale seria.
La costruzione del mito
Il mito della città sommersa è una costruzione recente, che si inserisce in un più ampio bisogno di riscoperta delle radici etrusche della Tuscia. Questo desiderio, in parte legittimo, ha spesso condotto a narrazioni di tipo visionario o immaginifico, talvolta con fini turistici, altre volte con motivazioni più personali. Si tratta di un meccanismo noto, la scarsità di dati viene compensata da un eccesso di narrazione. E il rischio, in questi casi, è quello di scambiare l’intuizione per prova, la suggestione per verità.
Un celebre precedente è la leggenda di Atlantide, ma anche, in ambito più vicino, le teorie su piramidi energetiche, civiltà perdute sotto il Gran Sasso, o tunnel templari sotto Castel Sant’Angelo. Tutti racconti che partono da una fascinazione reale, ma che si allontanano progressivamente dalla metodologia storica e archeologica. A differenza della scienza, la pseudoscienza non ammette confutazione, ogni smentita viene inglobata nella teoria come “prova del complotto”.
La responsabilità della divulgazione
Una rivista culturale ha la responsabilità di distinguere tra ricerca e invenzione. È nostro dovere lasciare spazio a voci nuove, indipendenti, anche non accademiche, ma senza mai rinunciare al principio di verificabilità delle fonti. Non tutto ciò che è fuori dai circuiti ufficiali è falso, ma tutto ciò che pretende di essere vero deve essere dimostrabile.
Nel caso del lago di Bolsena, ci troviamo invece davanti a una proposta unilaterale, costruita su fonti secondarie (cronache medievali, racconti orali, catasti settecenteschi) e senza il supporto di indagini stratigrafiche, datazioni radiometriche, analisi geomorfologiche o consulenze interdisciplinari certificate.
Il ruolo del “ricercatore indipendente” è importante, ma non può sostituire il lavoro sistematico di un’équipe. Un archeologo non è tale solo per la passione o l’intuito, ma per la capacità di documentare, argomentare, sottoporsi al giudizio dei pari. La scienza non è democratica, è comunitaria. E ha le sue regole.
Elogio dell’ignoto, ma con metodo
Questo non significa chiudere le porte alla curiosità. Al contrario, il fascino dell’ignoto è uno dei motori principali della ricerca. Ma è un fascino che va coltivato con rigore. Esplorare le rive del lago, raccogliere testimonianze, osservare il fondale è attività lodevole. Ma se da questo si vuole trarre una teoria storica, allora servono prove. E le prove si ottengono con scavi, con confronti, con peer-review.
Il rischio, altrimenti, è che ogni territorio si trasformi in una mappa del mistero, dove ogni rudere diventa un tempio e ogni anomalia un portale. Questo è ciò che accade quando la divulgazione rinuncia alla responsabilità critica, si lascia spazio all’imbonitore, al millantatore, al venditore di verità alternative. E si finisce per banalizzare la storia vera, che è più complessa, più lenta, ma infinitamente più affascinante.
La verità, oltre la favola
Gli Etruschi sono già straordinari così come li conosciamo; un popolo urbano, raffinato, in contatto con Greci e Fenici, capace di costruire necropoli a camera, sistemi idraulici, templi in legno e terracotta. Il loro mondo è emerso grazie a secoli di studi, da Massimo Pallottino a Larissa Bonfante, da Giuliano Bonfante a Jean-Paul Thuillier. Non serve inventarne uno nuovo.
Bolsena ha una sua dignità storica, che affonda nell’età romana e prosegue nel medioevo, con le vicende legate al miracolo eucaristico del Corpus Domini. La leggenda della città sommersa può restare come narrazione popolare, al pari del mostro di Loch Ness o delle apparizioni di luci misteriose in val Camonica. Ma non può essere spacciata per archeologia.
Chi scrive questo articolo non mette in discussione le buone intenzioni di chi cerca, esplora, immagina. Ma invita a fare chiarezza, la storia non è un parco giochi per visionari. E l’Etruria non ha bisogno di nuovi miti, ma di studiosi seri, di cittadini consapevoli, di narrazioni fondate. Solo così si può restituire al passato la sua forza reale, quella di parlare ancora oggi, senza bisogno di favole.
La Redazione